Per un fine tanto importante quanto la lotta alla discriminazione e all’odio su internet si potrebbe forse giustificare l’utilizzo di qualsiasi mezzo?
Forzare troppo la mano per conquistare l’obiettivo prefissato spesso rappresenta la vittoria di Pirro: una battaglia vinta ma ad un costo troppo elevato.
Il classico gioco per cui non vale la candela: combattere e sconfiggere l’odio su internet, “sfidando” le regole per il rispetto della privacy.
La situazione in UK: dal Communications Act all’Online Safety Bill
Dal 2003 la comunicazione online nel Regno Unito è regolata dal Communications Act.
Si tratta di una proposta dal Governo presieduto da Tony Blair per controllare quanto facessero i potenziali terroristi online, che diventò legge dopo gli attentati alle Torri Gemelle.
Allora questa legge era stata progettata come uno dei primi atti di sorveglianza sociale pensati dall’esecutivo con il fine di controllare meglio alcuni canali di reclutamento che andavano per la maggiore.
Una scelta che suscitò talmente clamore da essere etichettata nel decennio successivo come “sorveglianza di massa” da cui prendere le distanze.
Come? Tramite la proposta di una nuova legge, l’Online Safety Bill che lasciava alle Big Tech l’attività di controllo dei contenuti pubblicati dagli utenti anche nei sistemi di messaggistica privati protetti dal diritto alla privacy.
Il problema della sezione 127 del Communications Act
L’ago - che in questo caso ha il peso specifico di un masso - della bilancia tra giusto e sbagliato, lotta all’odio sul web e diritto di privacy, è la sezione 127 del Communications Act.
Questa sezione rende un crimine in UK tutto ciò che attraverso un qualsiasi sistema di comunicazione viene ritenuto “grossolanamente offensivo”.
Esempi eclatanti ce ne sono a bizzeffe:
- Lo youtuber Count Dankula, multato per uno scherzo di dubbio gusto;
- La giornalista Caroline Farrow,minacciata penalmente per aver “tradito” un transgender;
- Giuseppe Kelly, che ha scontato 150 ore di servizi sociali per aver esultato su Twitter per la morte di un capitano di polizia.
Dal controllo della comunicazione pubblica a quella privata
Fin qui abbiamo elencato esclusivamente trasgressioni comunicative pubbliche, attraverso differenti social media: di recente però l’analisi per individuare trasgressioni ha incluso anche strumenti di comunicazione privati.
Il caso più recente riguarda la condanna di un poliziotto per aver violentato e ucciso Sarah Everard .
Con il sequestro del telefono del colpevole, è venuto a galla un gruppo Whatsapp composto da altri 2 colleghi dove venivano scambiati messaggi di odio, battute su stupri, aggressioni sessuali e attacchi ad animali, bambini e disabili.
I due poliziotti coinvolti nella chat Whatsapp sono stati condannati alla prigione per 3 mesi per aver creato “angoscia alle persone a cui si riferivano i messaggi”.
Non è il primo caso, visto che a inizio 2018 il magnate milionario Paul Bussetti aveva condiviso un video in due gruppi Whatsapp in cui ironizzava sull’incendio dell’anno prima alla Grenfell Tower che aveva causato 72 vittime.
Cosa implica la scelta di sorvegliare le chat private?
Nessun oggettivo dubbio sullo scarso valore etico della chat Whatsapp tra poliziotti che prendevano di mira sconosciuti esclusivamente per svago.Qualche oggettivo dubbio sulla possibilità di indagare e condannare soggetti per aver scambiato messaggi attraverso interazioni private.
Il giudice nel caso dei poliziotti, ha ritenuto la sfera privata dei messaggi un’aggravante e probabilmente identificato questa legge come lo strumento ideale per uniformare pensiero e comunicazione.Nella continua ricerca dei confini della libertà, prova a farsi largo la Law Commission, che ha chiesto l’abolizione della Sezione 127 chiedendo di stringere il campo esclusivamente ai messaggi destinati a causare gravi offese a coloro che potrebbero vederli.